Laura si racconta riportando i frammenti della sua esperienza emotiva proprio come si dipanano dentro di lei. Ce li mette di fronte in maniera frastagliata, a volte incomprensibile andando avanti ed indietro nella sua esperienza emozionale, fino a ricostruire il puzzle che alla fine acquisisce un senso narrativo. La sua storia, profonda, intensa, in alcuni momenti lascia senza fiato. Laura ci porta per mano nell’angolo buio di Sé, per poi farci risalire e guardare tutto dall’alto. Le parti di spiegazione “psicologica” sono state approfondite da me, questo non altera certo il racconto ma lo arricchisce. Una narrazione stupefacente.
Ciao a tutti, sono Laura. Ho deciso di scrivere su questo sito perché credo che raccontarmi possa essere d’aiuto a me e a chi, leggendo, possa sentirsi meno solo. Magari tra, voi qualcuno sta pensando se esista una via d’uscita ad un’angoscia che ti schiaccia il petto ogni mattina, che ti impedisce di godere, di provare piacere; che ti chiude in una gabbia e non ti fa muovere gli arti, che ti risucchia in un vortice nero. Se molti se lo stanno domandando, spero che qui potranno trovare qualche risposta.
La mia depressione si è presenta dieci anni fa insieme al mio splendido bambino. Sono una brava mamma, una mamma amorevole. Verso di lui, però, mi sento molto in colpa perché avere dei figli si sceglie, i genitori no. Ho sempre avuto paura che la mia depressione potesse arrecargli dei danni.
Sono sempre stata una” donna di successo”: la più brava della classe, diplomata e laureata con il massimo dei voti. Ho fatto un sacco di esperienze pratiche, stage, volontariati che nel tempo mi hanno portata a vincere un concorso ed affermarmi come assistente sociale. Nel mio lavoro sono molto stimata.
C’è stato un momento della mia vita in cui sono stata veramente felice: erano finiti gli anni di lotta per affermarmi nel lavoro, perché per me lavorare, studiare, erano questioni di vita o di morte e per questo ho passato gli anni più belli della mia vita a “sgobbare” come non mai. Il mio senso del dovere, come diceva la mia terapeuta, era sopra la norma perché dovevo controbilanciare, raggiungendo la bravura, un’immagine interna completamente fallimentare. La mia felicità è arrivata quando, a circa 30 anni, ho iniziato a lavorare con grande successo e mi sono innamorata di un uomo sensibile, dolce, intelligente e generoso. Almeno così lo vedevo in quel momento. Quelli sono stati gli anni più belli della mia vita: quelli in cui mi sembrava di aver scalato una vetta altissima per anni e di potermi godere finalmente il panorama. Di periodi infelici, invece, ce ne sono stati tanti: ricordo in seconda media quando, guardando fuori dall’aula, mi sembrava di vedere tutto grigio, scuro, angosciante, piovoso. Le nuvole mi mettevano ansia. Mangiavo le unghie, mi vedevo brutta ed insipida e facevo la pipì a letto (questo forse fino alle elementari). Ero un’alunna modello e tutte le insegnanti mi volevano bene, ma per questo rinunciavo ai miei pomeriggi giocosi, al divertimento, e vivevo uno stato perenne di ansia perché il voto rappresentava il valore di me, valore che io potevo migliorare a seguito di un’infanzia che mi aveva creato un’autostima quasi nulla.
Mi ricordo che in adolescenza riuscivo a stare tranquilla solo se avevo finito tutti i compiti e poi uscivo, perché se facevo solo compiti, poi ero stanca e mi sentivo secchiona; se uscivo solamente il senso di colpa e l’idea che sarei stata punita (con un brutto voto) mi ossessionava. Quindi già in adolescenza mantenere un equilibrio era difficile.
A scuola mi facevo ben volere, aiutavo i compagni perché avevo bisogno di essere accettata; nel contempo rispondevo male ai docenti perché questo mi avrebbe resa popolare e mi avrebbe fatto sentire forte. La parte più profonda di me sapeva bene che, in fondo, ci tenevo al giudizio degli insegnanti, ma così mi guadagnavo la stima dei miei compagni che in quel periodo era fondamentale. Ero ben inserita nei gruppi di coetanei, a scuola mi divertivo e per certi versi la mia infanzia e la mia adolescenza sono state belle anche se ricordo dei momenti molto bui. In fondo, sono sempre stata depressa, anche se prima che un problema venga a galla ci deve essere il sasso che fa crollare il castello di carta; quel sasso ancora non era arrivato ma bastava una folata di vento per far cadere il mi equilibrio. Ricordo dei momenti felici, ma dei momenti carichi di angoscia, come quelli passati sui libri per un esame che doveva andar bene per forza, la devastazione dopo essere stata lasciata dal mio primo fidanzato, la paura dell’esame di maturità, il senso di vuoto che provavo dopo aver superato un esame brillantemente. Il periodo universitario, in particolare, fu particolarmente doloroso: di fronte ad un esame prima ero carica di ansia, studiavo all’infinito, fino a notte fonda; l’esame andava sempre bene o quasi e per un po’ ero felice ma poi mi rendevo conto che quell’obiettivo non mi riempiva più perché tornava a galla forse il mio senso di inadeguatezza o perché probabilmente ero troppo stanca e quindi priva di energia per affrontare altro; perché non sapevo come diversamente provare piacere se non attraverso il dovere o perché non mi bastava più quell’obiettivo ma necessitavo di qualcosa di differente; perché mi rendevo conto che la mia vita era solo studio e non c’era nulla di diverso ,perché a parte gli anni di scuola in cui il fidanzato e gli amici mi rendevano serena, poi mi interessavo solo dell’università. Il ragazzo dei tempi universitari non lo amavo e gli amici di allora non erano veri amici.
Ero pervasa, come diceva la mia psicologa, da una profonda “angoscia di perdita” che mi portava a legarmi in maniera “adesiva” (parole sue) alle persone. Le storie con i fidanzati sono sempre state lunghissime e fino a 20 anni sono sempre stata lasciata anche quando sapevo di non essere innamorata: meglio un amore fasullo che la solitudine, chi altro mi avrebbe voluto? Io che non ero niente.
Le amicizie vere erano intense, profonde, durature e tuttora sono presenti nella mia vita. Mancavano, però, gli amici con cui uscire il fine settimana perché quelli dell’università erano troppo anarchici per me, quelli di scuola avevano preso strade diverse, di fatto mi sentivo molto sola.
Il periodo più difficile è stato il post laurea, perché non avevo un lavoro e per me lavorare significava bilanciare un “omino interno” (anche queste sono parole della mia psicologa)che mi diceva costantemente che non valevo niente ed attenuare il senso di colpa perenne che mi portavo dentro per non essere abbastanza brava o abbastanza simpatica. In quel periodo, non mi sentivo né carne né pesce, non avevo più un fidanzato, facevo volontariati in continuazione per sentirmi utile e perché con il senso di colpa che provavo non potevo certo star senza far niente; uscivo a volte a ballare con le amiche, vedevo volti felici intorno a me ma io ero già schiacciata dall’angoscia, andavo alla ricerca di un fidanzato tra quelle sale, qualcuno che mi volesse, a volte vagavo da sola, guardavo qualcuno ma nessuno si avvicinava a me nonostante fossi molto carina. Ripensandoci, credo che le persona sentissero la mia angoscia, il mio pessimismo e per questo si allontanavano.
Inoltre, al tempo pensavo che non sarei mai stata in grado di lavorare perché l’ansia era troppa, ma qui l’esperienza mi ha dato torto perché ho scoperto che avendo un grandissimo senso del dovere a furia di impegnarmi di solito raggiungo i miei obiettivi. Questo è un pregio, ma anche la cosa che mi fa star male, perché mi impegno così tanto che non lascio nulla per me: le mie energie sono tutte spese su quel dannato “tavolo da gioco” che è il lavoro/studio. E come diceva la mia psicologa” puntare tutto su un “numero” può essere molto rischioso perché o si vince o si perde tutto. Alla fine rimanevo priva della voglia di fare, di sorridere, di cantare ballare, correre, muovermi, fare l’amore.
In quel periodo mi sentii molto sola ed iniziai a dimagrire, la mattina facevo difficoltà a svegliarmi perché mi vedevo piccola e senza energie rispetto ad una giornata troppo impegnativa da affrontare. Il primo lavoro in una cooperativa fu un fallimento ed io mi diedi tutte le colpe. In realtà, l’ambiente esterno aveva delle grosse problematiche, ma non vorrei soffermarmi su queste, ma sul vissuto della “depressa” che diventai dopo: rabbia zero, solo sensi di colpa, senso di inettitudine, disperazione, pessimismo, angoscia, ansia. Iniziai ad avere le vertigini e a provare un senso di soffocamento e tachicardia che dapprima mi impedirono di vivere le normali attività quotidiane, ma poi passarono da se quando investii ”tutta me stessa” in una nuova iniziativa. Quegli anni furono così: mettevo tanta energia nelle cose che facevo. Poi se qualcosa andava storto stavo malissimo. Il problema, e lo scoprii dopo, era proprio quel “tutta me stessa”.
Quegli anni passarono con tanti “momenti no” ma anche con tante realizzazioni che in seguito mi hanno portato ad eccellere nel lavoro e a sentirmi realizzata. Tornassi in dietro forse rifarei tutto, ma magari con meno enfasi, con meno energia, mettendo meno investimento personale nelle cose per proteggermi da quel vissuto grigio sempre alle porte.
Gli anni felici vennero dopo, quando iniziai a lavorare stabilmente e ad essere apprezzata e quando mi innamorai e sposai con un uomo che mi incoraggiava, mi capiva, mi esortava, mi tranquillizzava. Sono tutt’ora sposata con lui, ma oggi ne vedo anche i difetti. Purtroppo non è solo l’uomo dolce, ma anche l’uomo che esplode di rabbia e che, se si sente abbandonato, è capace di chiudere con le persone e quando la miccia esplode alza un muro elevatissimo. Al tempo pensavo che questo fosse una risorsa: in fondo io credevo di essere cattiva e che quei muri li meritavo; che tutta quella rabbia fosse la risposta ad una mia colpa e che anzi “ricattarmi” con il silenzio fosse l’unico modo per contenere un animo ribelle, impulsivo e cattivo. Il ricatto, in fondo ci legava in maniera indissolubile perché faceva leva sulla mia angoscia di perdita. Nella realtà non c’era niente di cattivo dentro di me, c’era solo angoscia che in alcuni momenti mi rendeva irritabile, cosa che scambiavo per impulsività. Oggi amo mio marito e non potrei mai vivere senza di lui, ma so che ho commesso un errore in quel periodo, ovvero pensare che lui mi potesse salvare dalla depressione. In realtà, nessuno ci può salvare e credere qualcosa del genere ci porta prima o poi a sperimentare una profonda delusione. Oggi riconosco lo stesso uomo buono di allora, ma vedo anche l’uomo che deve lavorare sulle proprie fragilità che un tempo credevo fossero solo mie.
Gli anni più felici sono stati con lui e lo ringrazierò sempre di tutto ciò che mi ha fatto vivere. Ricordo arcobaleni colorati, sguardi persi negli occhi dell’altro, voci sussurrate, corpi intrecciati, viaggi colorati, case da costruire, interni da arredare, io e lui insieme. Insieme potevamo tutto ed insieme abbiamo costruito tanto, con lui ho capito di essere brava, lui mi ha dato la forza di credere in me e sono riuscita in tante cose.
Dopo 3 anni di matrimonio sono rimasta incinta di mio figlio. La gravidanza è stata cercata assiduamente, ma durante l’attesa ho iniziato ad avere molta paura. Il mio senso di inettitudine ed il rapporto con mia madre,” l’imprinting” che mi portavo dentro della relazione madre- bambino, mi portavano a credere che non sarei mai stata una brava madre. Ero irrequieta, piangevo per qualsiasi cosa, ero preoccupata per il lavoro. Insomma, la gravidanza non è stato proprio un bel periodo perché vedevo solo il negativo della cosa.
Quando è nato mio figlio si è aperto un nuovo mondo di fronte ai miei occhi. Mi sono accorta che io e mia madre non abbiamo proprio nulla in comune: lei aggressiva, disempatica, incapace di contenere; io assolutamente materna, amorevole, affettiva. Di mio figlio mi sono innamorata appena l’ho visto uscire da me: era bellissimo, un corpicino disorientato che cercava rassicurazioni e si placava al suono della mia voce. Che magia. Subito mi sono sentita una “brava mamma”, ero così innamorata di quell’esserino che non sentivo la fatica, avevo una pazienza infinita, e per me era un piacere cullarlo, baciarlo, cambiargli il pannolino. Ho detto che la depressione è insorta con mio figlio, non proprio, per cinque mesi sono stata la persona più felice del mondo. Anche nella maternità ho messo tutta me stessa, con ottimi risultati perché la relazione madre-bambino era stupenda, ma stavolta quel “tutta me stessa” mi ha messo KO.
I guai cominciarono quando il latte iniziò a diminuire. Volevo allattare mio figlio fino ad un anno, perché così prescrivono le “brave mamme” e le bravi ostetriche ed io non volevo essere da meno. La mia psicologa dice che dietro questo c’è un bisogno di mantenere un legame simbiotico con il bambino, perché attraverso il suo accudimento rivivevo delle fasi infantili che erano state deludenti. Per me allattare era superlativo: ero solo io a poterlo fare e quindi il rapporto tra me e lui era unico e speciale; lui si addormentava tra le mie braccia, ed ero io che lo avevo avvolto nella dolcezza, io con il mio latte il mio seno, io con tutta me stessa. Perdere il latte diventò intollerabile; dicevano che tirandolo sarebbe aumentato e così passavo parte delle giornate a tirarmi il seno con il tiralatte, a mangiare, bere, tentare di allattare mio figlio che però aveva fame e quindi piangeva e poi non dormiva di notte ed io ero inadeguata perché non lo avevo nutrito bene. Forse per quel brusco distacco, forse per la fatica, forse per un senso di inadeguatezza che di lì in poi tornò di nuovo a galla, la depressione mi piombò addosso lasciandomi sola in un deserto sperduto.
Cominciai a sentirmi così in ansia che non riuscivo a mangiare, avevo le vertigini e quindi dovevo stare sdraiata; di notte dormivo male e quindi di giorno ero così stanca da non riuscire a prendermi cura di mio figlio il che mi rendeva inadeguata. Un senso di disperazione e di angoscia mi investì: non riuscivo più ad essere la brava mamma di prima. Inoltre iniziai a preoccuparmi e a fare molte visite per capire cosa avessi, ma nulla veniva fuori. Cominciai a pensare di essere depressa o” malata di mente” il che mi faceva piangere e pensare che per me non c’era più nulla da fare.
Mia madre soffre di un disturbo borderline di personalità associato ad alcolismo. E’ una donna aggressiva, disempatica e fortemente egoista. I rapporti con tutte le persone intorno a lei sono basati sulla sua salute che è il centro della sua realtà. Mio padre mi ha fatto da madre, lui è un uomo dolce ed affettuoso ma di certo non poteva attutire le continue aggressioni verbali materne. Di lei mi vergognavo molto da piccola, rimproverava amichetti ed amichette se facevano cadere qualcosa in casa, poteva dire qualsiasi cosa in pubblico per vantarsi, ce l’aveva sempre con tutti, rimproverava mio padre perché era troppo socievole, troppo buono, troppo gentile. Aveva degli accessi di ira che mi spaventavano. Con mia madre avevo un rapporto conflittuale, mentre di mio padre ero l’unica ragione di vita perché mio fratello più grande non era bravo a scuola e nello sport come me. Mio padre mi permetteva tutto a patto, chiaramente non consapevole, che io fossi la sua super brava bambina, che fossi forte, che diventassi importante ma, soprattutto che mi non mi distaccassi mai da lui. MI ricopriva di soldi perché sotto sotto voleva alimentare quel rapporto di dipendenza che era stato la sua unica ragione di vita. Per mio padre nutrivo un senso di colpa senza misura. Lui per me, per la famiglia aveva passato la vita con una donna aggressiva e malata, come potevo deluderlo? Potevo solo ricompensare il suo dolore con fatica ed impegno affinché fossi il suo orgoglio. Nel contempo, oltre ad essere brava buona ed obbediente, non potevo nemmeno essere autonoma perché questo avrebbe significato abbandonarlo. Crebbi quindi con una profonda angoscia di perdita legata sia alla mancanza di mia madre, sia al rapporto simbiotico con mio padre; con un forte senso di inadeguatezza rispecchiato da mia madre e da quello che sarei potuta diventare e dal senso di colpa perenne verso mio padre.
Ho passato tutta la vita a cercare di differenziarmi da mia madre. Il fatto che la depressione mi piombasse addosso mi faceva sentire sconfitta e senza via d’uscita. Mi faceva sentire il clone che non ero di una donna annientata, alienata come io vedevo mia madre. L’angoscia in quel periodo mi risucchiò, pensavo che sarei finita in una clinica psichiatrica e che il mio bambino avrebbe sofferto a causa mia. Piangevo disperatamente tutto il giorno gridando “povero il mio bambino” dove il bambino r
appresentava il mio cucciolo, ma anche me stessa che attraverso di lui riviveva i traumi di tutta la sua infanzia. Ma io stavolta non ero solo il bambino, ero anche la madre cattiva che con la sua “malattia” aveva causato sofferenza, distruzione, la fine di tutto. La voglia di vivere c’era però ed era tanta e quindi decisi di cercare aiuto.
Il primo psicologo che incontrai mi fece iniziare una psicoterapia a cadenza settimanale e ritenne che non avevo bisogno di farmaci. Con lui mi sentivo malata, cosicché iniziai a pensare di avere un grande bisogno di quell’uomo che ero l’unico in grado di salvarmi. Nel contemp , mi invitava a distaccarmi da situazioni ansiogene come genitori, fratelli ecc. Diventai, quindi, sempre più sola e sempre più dipendente da lui. Strano come, quando qualcuno ci fa sentire meno di niente, ci leghiamo a quella persona in maniera indissolubile. Pensare che ero così malata, mi faceva credere che avessi bisogno solo di lui per curarmi e che egli fosse l’unico in grado di verdere effettivamente com’ero: un dramma di donna. Più io mi sentivo uno schifo e più si creava un legame con quell’uomo che in qualche modo, attraverso l’immagine della malata, colludeva con la mia parte interna “cattiva” che mi faceva sentire una nullità. Mi spiegarono che questa è la collusione che spesso si crea tra vittima e carnefice.
Fu una mia amica a farmi uscire da quella gabbia, mi disse che quello che stavo vivendo lo aveva vissuto anche lei, che non ero poi così malata anche se i sintomi erano acuti e mi portò dalla mia Psicologa.
Incontrare la Dr.ssa Ortolani in quel momento fu un sollievo, era risoluta tanto da farmi sentire sicura perché c’era una strada da seguire e lei conosceva più o meno la direzione. Ero così inetta, in quel momento, che avrei voluto essere presa e portata per mano come una bambina. Mi colpì molto la sua umanità: con lei non ero un ammasso di sintomi, ma una persona come un’altra, si certo con delle fragilità, ma comunque una persona. Questo fu già un passo importante, che risollevò di poco la mia autostima e mi tranquillizzo’ subito, perché iniziai a vedermi come un essere umano con una via d’uscita. Di lei apprezzai molto la sincerità: diceva delle verità profonde, a volte anche dolorose, guardandomi negli occhi e con voce carezzevole. Quello che esprimeva mi entrava dentro. La verità creò un rapporto di intensa fiducia. Mi propose un’ integrazione della psicoterapia ad una farmacoterapia, non perché io fossi grave, ma perché la fase era acuta e mi ero trascinata la situazione per tanto tempo. Inizialmente prendere farmaci mi fece ripiombare nello sconforto facendomi sentire di nuovo come mia madre, ma poi mi fu di grande aiuto. Non smetterò mai di ringraziarla per avermi aiutata ad assumerli. La mia risalita non fu netta e veloce come capita ad alcuni, ma lenta e faticosa. Il farmaco mi diede la possibilità di riuscire a compiere di nuovo le normali attività quotidiane, ma c’era tanto da affrontare anche dal punto di vista psicologico. Bastava poco per farmi ripiombare nell’angoscia e nella disperazione. Iniziai una psicoterapia che mi aiutò a vedere quei meccanismi psicologici che mettevo in atto per cercare di modificarli. Cominciai a vedere che punivo continuamente me stessa perché mi portavo dentro un senso di colpa incommensurabile. Vedevo anche che la fatica a cui mi sottoponevo ed il clima di ricatto continuo del mio mondo interno (“se riesci a fare questo o quest’altro allora hai un valore”),avrebbero devastato qualsiasi essere umano. Cominciai ad avvicinarmi al piacere, come un’analfabeta si avvicina alle lettere: non sapevo cosa mi piacesse e cosa volevo perché ero abituata a vivere secondo il dovere. Iniziai una lunga lotta contro una parte cattiva di me stessa che mi sottoponeva al giudizio e ad un processo continuo. La mia morale si alleggerì un po’, cominciai ad apprezzare i momenti di piacere e a pensare un po’ a me. Certo l’altra Laura era sempre alle porte, pronta a prendere il controllo, ma io più passava il tempo più la riconoscevo e la guidavo verso luoghi più belli delle distese gelate in cui era vissuta. Dopo due anni abbandonai i farmaci e tutt’ora non ho avuto necessità di riprenderli, acquistai autostima ed iniziai a vedere i miei successi e le mie abilità. Alleggerii di molto il lavoro per proteggermi un po’, e mi calai nel ruolo di mamma che mi riempiva completamente. Secondo la mia terapeuta, questo andava a compensare le carenze subite durante l’infanzia e dovevo cominciare a guardare mio figlio come una persona autonoma e non un cucciolo che doveva riempire il mio vuoto. Sinceramente non so se sono ancora riuscita a fare questa separazione, perché l’amore che ho per lui è viscerale, profondo e non riesco a staccarmene. So che devo farlo per aiutarlo a camminare con le sue gambe, ma anche questa è una lotta ancora da affrontare. Credo di essere con lui proprio come mio padre era con me: sarei disposta a tutto per mantenere quella simbiosi. Il rapporto con mio marito chiaramente ne risentì: lui si sentì abbandonato, tradito ed ora che ero più sicura di me vedevo che quella relazione di dipendenza instaurata all’inizio, lui un Dio protettivo, io la bambina, non andava più bene. Ero ormai un’adulta autonoma. Questo fece entrare in crisi il nostro rapporto, mio marito sentendosi messo da parte iniziò a diventare aggressivo. Un uomo che si arrabbiava ed urlava anche con il bambino, nulla a che vedere con quello dolce che avevo conosciuto. Mi resi conto che anche lui aveva i suoi nodi da sciogliere e quindi lo convinsi i ad iniziare una psicoterapia (con un altro terapeuta). Sinceramente, l’uomo nuovo che era emerso non mi piaceva, non volevo una persona che mi metteva dentro delle cose cattive solo perché era arrabbiato; ci fu un momento in cui dubitai del nostro rapporto. Nel tempo iniziai a capire che ognuno di noi ha dei lati oscuri e delle risorse, e che l’equilibrio ed il benessere si raggiungono solo conoscendosi e cercando nuovi equilibri dopo momenti di crisi.
Nella mia vita, ho sofferto, ho lottato, sono stata male, ma in fondo in fondo credo che ognuno abbia i propri fantasmi o peggio ancora i propri malesseri fisici. Oggi non mi ritengo “diversa” per la mia depressione che in fondo rappresenta solo un modo di essere. In anni di lavoro terapeutico ho anche capito che la sensibilità, l’onestà, la dedizione al lavoro (aspetti di molte personalità come la mia) sono cose belle e non solo “malesseri”. Al momento ho 43 anni, sono passati 10 anni da quel periodo buio e da una parte penso che averlo avuto mi ha aiutato ad essere una persona diversa, una persona che si vuole bene e si protegge da Sé stessa. La mia è stata una lunga lotta, iniziata da bambina, che in alcuni momenti ha creato solo ombre piovose intorno a me. Ma oggi non mi sento più senza via d’uscita, dietro ogni angolo si dirama una nuova strada, una strada che non conosciamo, diversa tortuosa, spesso faticosa, bisogna solo avere il coraggio di percorrela. Oggi non mi vedo più una depressa ma finalmente persona.