Bianca oggi, a distanza di 8 anni dalla terapia, si racconta con una toccante capacità rappresentativa, percorre il viaggio a ritroso donandoci pezzi dei suoi vissuti più profondi dove il fuori ed il dentro diventano ancora un’altra storia emozionante, straziante, a mio avviso unica.
Nei miei ricordi è iniziato tutto in un campo. Su un asciugamano, steso su un prato verde, probabilmente in occasione di una di quelle festività che si passano con gli amici. La Pasquetta forse. O il Ferragosto. Non ricordo quasi nulla di quella giornata, eccetto il consiglio di un’amica. Un’amica che ancora oggi ho molto a cuore, che sono certa voleva avere il consiglio giusto al momento giusto -a tutti i costi, pur di darlo, perché tra amiche è così- e che non si è fermata un solo secondo a pensare a cosa avrebbe potuto innescare. “Se non riesci a dimagrire puoi provare a vomitare”. Questa frase è molto nitida nella mia memoria, ma non la ricordo con angoscia, né con rabbia, piuttosto con un senso di leggerezza, ingenuità, compassione.
Sono passati molti anni. Oggi sono un’insegnante. Un’insegnante molto stimata, amo il mio lavoro, sono orgogliosa di me, convivo, sono innamorata e molto felice. E mi voglio un gran bene.
Quando la storia della mia bulimia è iniziata avevo all’incirca 14 anni. Quando ho iniziato a vedere il mio corpo come lo specchio della mia anima non lo ricordo invece. Deve essere accaduto prima. Ricordo in modo molto limpido che nel periodo dell’adolescenza quando pensavo al mio corpo vedevo nella mia mente una pelle flaccida, di un rosa molto chiaro, un incarnato pallido quasi nauseante, di quelli che non prendono il sole al mare perché non possono essere esposti adornati solo da uno striminzito bikini. In realtà a volte al mare ci andavo, la mia pelle non è mai stata così chiara come lo era nella mia testa, e la flaccidità proprio non mi apparteneva, dopo tutti gli anni di lezione di danza frequentati. Eppure io mi vedevo così: rosa porcellino, flaccida, grassa, brutta. Le cosce che si toccavano mentre camminavo, le braccia grosse davanti allo specchio, i polpacci sproporzionati, i fianchi pronunciati, la faccia rotonda. Pesavo 53 chilogrammi.
Qualche riga sopra ho detto di aver iniziato, un giorno, a vedere il mio corpo come lo specchio della mia anima. Quando dico anima mi riferisco alla me più intima: quello che penso, quello che provo, quello che sono dentro, quello che ricevo ogni giorno, quello che do e che posso dare a chi mi è intorno. Non mi riferisco al mio corpo, al massimo ai miei occhi. Nient’altro. Dunque, se questa era l’immagine del mio corpo, la mia anima ne usciva distrutta. Un fallimento: una me incapace di prendere una qualsiasi decisione in piena indipendenza, una me inadeguata, una me incapace di immaginare un futuro che non fosse stato pensato e già predisposto da altri, una me che a tutti i costi doveva accontentare chi era intorno, una me eternamente indecisa, insicura, ansiosa. Ricordo una me che difficilmente provava rabbia, e che quando lo faceva si sentiva in colpa. Ricordo una parte di me grande che sapeva quello che doveva essere per non scontentare gli altri e una me piccola, una scintilla dentro l’anima che tentava di suggerirmi quello che volevo essere, ma che era troppo difficile da ascoltare. D’altronde, mi ripetevo, “tu, piccola Bianca, sei gentile, sei paziente, sei buona: puoi aspettare”.
Rabbia, felicità, ansia, tristezza, malinconia, rammarico, colpa, vergogna, paura: le emozioni sono tante, le loro intensità e sfaccettature ancor di più. Ma quando hai deciso che il tuo copione è già scritto, quando hai già prestabilito le emozioni che puoi provare, esse diventano davvero poche. Eppure sono lì, tu le puoi mascherare pensando di renderle più accettabili, gestibili, ma è un’illusione: in realtà le stai provando, le soffochi, le copri. Eppure restano lì.
Quando provavo un’emozione che secondo me non avrei dovuto provare, tipo la rabbia, io tentavo di nasconderla e di consolarmi in segreto, sperando passasse o sperando potesse diventare nella forma o nell’intensità socialmente accettabile. Il cibo era il mio segreto. Non mi sono mai abbuffata davanti a qualcuno. Il cibo mi placava, mi restituiva questa illusione ma mi lasciava la consapevolezza che il grasso del mio corpo sarebbe aumentato, la pelle sarebbe diventata più flaccida, l’incarnato più rosa, le cosce si sarebbero ribellate ancora di più continuando a toccarsi… Arrivava il senso di colpa, poi la deriva. Mi sentivo una fallita, una sciocca, una debole. Il vomito per me era l’unica via per ripristinare la situazione iniziale e cacciare finalmente fuori quell’emozione da cui tutto era partito. Una volta fuori, nulla mi avrebbe più ferito.
Quando vomitavo mi sentivo vuota, avevo la sensazione di poter voltare pagina e dire: “bene, ora inizia una nuova me”. Mi sentivo forte, grande. Questa me che immaginavo corrispondeva in tutto e per tutto al copione iniziale: alla ragazza buona, gentile, paziente, alla parte grande di me. La piccola me l’avevo cacciata fuori vomitandola. E così il circolo si riapriva l’ora dopo, la sera, il giorno dopo. Un loop infinito che pensavo non avrei mai potuto spezzare.
Il mio corpo è sempre stato solo mio, la mia anima sembrava invece appartenesse a chiunque ma non a me. Eppure me la volevo riprendere, eccome se volevo.
E così cercavo di ridarle forza e dignità attraverso l’unico canale di mia proprietà: il mio corpo. Ho desiderato stringere con lui una relazione intima, viscerale, esclusiva, al fine di sentirlo mio e solo mio; sono arrivata a farmi dei piccoli tagli per esercitare su di lui il mio potere e la mia volontà. Ho tentato di controllarne il peso, per cercare di ridare alla mia anima un volto positivo, di successo. I chili che scendevano mi davano l’illusione che io mi stessi riappropriando di me stessa: avevo uno scopo, un obiettivo, un pezzo di me di cui io potevo disporre finalmente come più desideravo: 52 chili, 51 chili, 50, 49, 48, 47. Ne vedevo gli effetti in modo lampante e così mi convincevo del fatto che tutti potevano vedere di cosa ero capace. E così alla fine avrei sistemato tutto: un corpo magro e un’anima tenace, coraggiosa, perfetta. Sentimenti giusti, accettabili, auspicabili.
Sono arrivata a 47,3 chilogrammi. Non credo di poter togliere mai quell’immagine della bilancia dalla mia testa. Quel giorno mi sentivo soddisfatta, capace, sicura, forte. Ma il giorno dopo non cambiò nulla, anzi. Continuare a scendere era troppo difficile, la mia frustrazione era enorme, il senso di colpa ingestibile, l’ansia difficile da contenere. Intanto il mio corpo chiedeva aiuto: la voce roca da un anno, la caduta dei capelli spaventosa, quattro carie in un mese per via dei succhi gastrici. Piangevo così tanto da vivere con un senso di spossatezza perenne.
Mi sono confidata con mia cugina. Le ho chiesto di non tradire il mio segreto, poi ho pregato tante notti affinché lo facesse. E alla fine lo ha fatto. Lo ha rivelato alla mia famiglia. Dopo che i miei hanno saputo quello che stavo combinando, hanno pianto, mi hanno stretta forte e poi mi hanno lasciato la mano, libera di percorrere il mio cammino. Ho iniziato la psicoterapia e da quel giorno non ho più vomitato. Ho avuto una sola ricaduta. Una piccola parentesi, dopo un anno, ed ero di nuovo con mia cugina.
Durante gli anni della psicoterapia ho trovato un ragazzo che ho amato molto e chi mi ha insegnato a scorgere il bello del mio corpo, ho dato la mano a quella picc
ola me e l’ho fatta uscire pian piano. Ho guardato i miei genitori e ho visto il loro amore ma anche la mia voglia di indipendenza. E l’ho accettata con soddisfazione e orgoglio. Ho progettato il mio futuro e ho inseguito i miei sogni. Ho smesso di pesarmi, me ne dimenticavo sempre più spesso.
Se ripenso agli anni della psicoterapia avverto un nodo alla gola: mi commuovo sempre. È stato molto faticoso. È stato liberatorio.