Possiamo immaginare cosa rappresenti il rapporto con il cibo se pensiamo che la prima relazione del neoanto è con il seno materno. Da questo primo toccare, succhiare, accarezzare si struttura quella che in psicologia viene chiamata “relazione d’attaccamento” (Bowlby). L’attaccamento del bambino al care-giver è un istinto: noi siamo programmati per afferrare, succhiare, prendere e questi riflessi sono il retaggio dell’evoluzione della specie dove l’afferrare poteva permettere ad un cucciolo di scimmia di rimanere attaccato alla madre durante una fuga e quindi di preservare la specie. Questi riflessi permettono dapprima di organizzare un attaccamento fisico alla madre, poi uno di natura affettiva o psicolgica. Le esperienze emotive-affetive ripetute che facciamo dopo la nascita generano una modalità di contatto interpersonale che può essere più sicura oppure evitante o ambivalente. Fortemente correlata a questa sicurezza o insicurezza nella relazione d’attacamento è la capacità di mentalizzare ovvero la capacità di rapprenstarsi nella mente vissuti emotivi e crere immagni mentali di noi e degli altri. Quando questo processo è alterato, l’emozione viene vissuta come uno stato di attivazione che deve essere scaricata o agita. Ecco allora che il cibo può diventare uno strumento importante, perchè ricorda il primo rapporto con il care-giver, attraverso il quale agire le nostre angosce o i nostri momenti di rabbia. Allora ci sentiamo soli e possiamo “riempirci” di cose buone e questo “sentire” estremamente fisico ci aiuta anche a definire un senso di sè psicologico: possiamo sentirci pieni e quindi presenti. Regolare il nostro comportamento alimentare richiede una conoscenza di quello che sentiamo e proviamo, una rappresentazione del vissuto emotivo che prima di diventare azione possa essere”disegnata” come immagine mentale.